CHIESACOMMENTI

Le guerre, il terrorismo e il nostro silenzio complice

“…Fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi per la loro fede in te, sotto i nostri occhi o spesso con il nostro silenzio complice” (1). Molti titoli dei giornali hanno sottolineato queste parole del Papa sul “silenzio complice” davanti all’orrore delle stragi che accompagnano questa “terza guerra mondiale a pezzi” così come da lui stesso definita. Non è solo una frase (o un titolo) d’effetto. Descrive bene l’atteggiamento al quale ci stiamo abituando quasi per anestetizzare i nostri sentimenti e blandire il nostro senso di impotenza davanti al perpetrarsi dell’orrore. 
Si può rompere il silenzio complice ? Ma soprattutto possono le parole fermare le armi ? 
Mentre si facevano insistenti le minacce di un allargamento del conflitto in Siria dalle conseguenze sicuramente più catastrofiche, papa Francesco ha voluto chiamare, con una fretta inusitata, i fedeli a raccolta in piazza S. Pietro, dopo aver ripetuto all’Angelus il monito “Mai più la guerra”, che già era stato scandito da Giovanni Paolo II 10 anni prima, alla vigilia della seconda guerra contro l’Iraq.
L’intervento contro la Siria fu poi scongiurato, ma soprattutto si era creato un movimento di impegno per la pace che aveva voluto far sentire forte la sua voce in un silenzio in cui sembravano poter risuonare solo il fragore delle armi. 
Dopo gli attentati a Parigi e a Tunisi in tanti hanno partecipato alle manifestazioni che sono seguite e queste folle eterogenee fanno nascere un’altra domanda, se sia possibile immaginare che le aspirazioni di pace delle diverse culture e tradizioni e presenti in ogni uomo e donna, in qualche modo si uniscano in un movimento forte e attraente che conquisti le folle e sia da argine alla violenza. Che possa conquistare e attrarre anche quei giovani europei tentati invece dalle promesse di riscatto dell’Isis. 
Assisi 2002
A questa domanda in qualche modo aveva voluto rispondere Giovanni Paolo II, quando aveva voluto radunare nel 2002, nuovamente ad Assisi dopo il primo storico incontro del 1986, i rappresentanti delle religioni per un nuovo impegno per la pace dopo l’attentato dell’11 settembre 2001.  In quell’occasione il papa aveva pronunciato un discorso importante, espressione di quello spirito di Assisi che vedeva sempre più necessario. Perché radunarsi ad Assisi ? Prima di tutto – aveva detto il papa – per “ascoltarci gli uni gli altri” come primo “segno di pace … per diradare le nebbie del sospetto e dell’incomprensione. Le tenebre non si dissipano con le armi; le tenebre si allontanano accendendo fari di luce (perché) l’odio si vince solo con l’amore” (2). E se per il papa era necessario ribadire che le religioni, tutte, “sono al servizio della pace” e fosse necessario un rinnovato impegno dei loro leader, non di meno quella chiamata è per tutti, chiamati a seguire l’esempio di tanti uomini e donne che,  – continuava il papa – “si sono distinti come testimoni di pace. Con il loro esempio, essi ci insegnano che è possibile costruire tra gli individui e i popoli ponti per incontrarsi e camminare insieme sulle vie della pace…” e si augurava che non mancassero nel nuovo millennio tali uomini e tali donne capaci di irradiare tale spirito di pace nel mondo, fatto di amore e speranza.
Ma lo “Spirito di Assisi” è solo qualche cosa di aulico che riguarda i cieli e non la nostra terra ? Una bella pausa spirituale, ma ininfluente davanti agli ingranaggi della storia ?
  Una risposta a questo interrogativo veniva dallo stesso Wojtyła in quello stesso discorso del 2002 quando ribadiva che “Pregare non significa evadere dalla storia e dai problemi che essa presenta. Al contrario, è scegliere di affrontare la realtà non da soli, ma con la forza che viene dall’Alto, la forza della verità e dell’amore la cui ultima sorgente è in Dio” E il pregare per la pace, seppure distinti, ma non gli uni contro gli altri è infatti espressione forte di “un messaggio: vogliamo mostrare al mondo che lo slancio sincero della preghiera non spinge alla contrapposizione e meno ancora al disprezzo dell’altro, ma piuttosto ad un costruttivo dialogo, nel quale ciascuno, senza indulgere in alcun modo al relativismo né al sincretismo, prende anzi più viva coscienza del dovere della testimonianza e

dell’annuncio”(2). Preghiera come ispiratrice della testimonianza e del dialogo, come armi storicamente efficaci contro il dilagare del male, perché capaci di risvegliare e unire le energie di pace presenti in tutti i popoli. Gli incontri di Assisi non sono rimasti episodi isolati e il cosiddetto Spirito di Assisi ha animato negli anni seguenti numerose occasioni di dialogo e di incontro a diversi livelli e in diverse parti del mondo come gli incontri internazionali organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, che hanno reso lo Spirito di Assisi popolare in tante piazze del mondo, fra cui recentemente, degna di nota, quella de l’Avana a Cuba (3).

  Eppure, davanti agli eccidi, l’idea di seminare pace nel lungo periodo sembra ad alcuni una risposta debole e non pochi si mostrano fortemente critici invocando una risposta “muscolare” che possa difendere l’occidente da una paventata invasione. Basta leggere i commenti ad uno degli ultimi articoli de il Foglio, come quello in cui un lettore si angustia perché non ci siano orde di “giovani cattolici che come i foreign fighters dell’anticristo islamici” partano per combattere in Iraq  o quello in cui si critica il papa perché  “la Chiesa di Cristo avrebbe bisogno di un Giulio II° con tanto di spada e corazza, e non di un assistente sociale” e dando ragione a chi invoca “una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella subita” accusando di irenismo chi prova a costruire ponti e invocando “l’iradiddio” terrena (4).  A leggere tali commenti sembra quasi che i principali nemici di questi signori siano chi osi invocare la pace e proporne la sua costruzione…
Dopo l’11 settembre, molte voci, militari e anche intellettuali, hanno alimentato il mantra della “guerra giusta” convincendo tanti della necessità di una scelta meno nobile, ma necessaria. Personalmente credo che tale approccio sia stato disastroso e che la storia recente lo dimostri ampiamente per l’instabilità che ha creato nella regione mediorientale. Ma alle considerazioni sugli effetti politici è necessario aggiungere quelle statistiche sul prezzo in vite umane di tale scelta, come
ha dimostrato una rapporto appena pubblicato (5)  da tre gruppi di scienziati pacifisti che ha calcolato il numero di morti prodotti dalla cosiddetta “guerra al terrore”: almeno un milione e trecentomila morti in Iraq, Afghanistan e Pakistan, ma la stima – avverte il rapporto – è al ribasso, mentre probabilmente la realtà potrebbe superare i 2 milioni di morti.   Si potrebbe calcolare quanto queste vite abbiano fruttato in guadagno per i fabbricanti e i trafficanti di armi, che, ci ha ricordato il giorno di Pasqua papa Bergoglio “…guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne”, ma dovremmo anche riflettere di più su quanto la risposta muscolare dell’occidente abbia favorito il diffondersi dello jihadismo armato, legato all’idea politicamente attrattiva della possibilità di ritorno all’epoca d’oro del Califfato e quanto si è lavorato poco per eliminare quelle “…situazioni di oppressione e di emarginazione (che) sono spesso all’origine delle manifestazioni di violenza e di terrorismo” come definite da Giovanni Paolo II nel già citato discorso ad Assisi nel 2002. Qui non si tratta di negare un diritto alla difesa o a non farsi massacrare, ma di notare come sia mancato uno sforzo nella costruzione della pace, quello che possiamo identificare come “silenzio complice”.   Quanto si lavora su questo ? Un occhiata in libreria non evidenzia, come ci si potrebbe aspettare in un tale periodo storico, una grande produzione di testi e riflessioni su come costruire la pace. Possiamo trovare un certo numero di saggi che cercano di spiegare il fenomeno Isis, ma non molto altro. Degno di nota il volume “Religioni e violenza” a cura di Vittorio Ianari che raccoglie numerosi preziosi contributi di rappresentanti di diverse religioni, protagonisti di processi di pace, intellettuali e teologi, in uno sforzo che sfugge alle semplificazioni o alle contrapposizioni.
  Cosa può fare la gente comune ? Le manifestazioni contro il terrorismo in Francia hanno avuto un forte impatto nelle folle, ma in Italia l’eco è stato ridotto, forse troppo semplificato nel ripetere slogan quale “Io sono Charlie” e così via, come dimostrato da un certo dibattito come si può leggere ad esempio nelle lettere al direttore di Avvenire  (6) o il disagio della scrittrice Roxane Gay (7) davanti alle risposta semplici per dissociarsi dall’orrore e ci si chiede se non sia necessaria una lettura più profonda dei fatti ed una risposta o una solidarietà che vada oltre la brevità di un tweet per poi ammettere l’impotenza di non poter fare di più.
  In questo modo si rischia l’abitudine mentre, come conclude il suo articolo Andrea Riccardi, commentando il tragico attentato in Kenya sul Corriere della Sera , non ci si può abituare all’orrore, ma “Ci vuole un sussulto di coscienza: musulmani, cristiani, laici, gente dai sentimenti umani… non ci si può far intimidire da questa violenza, né ci si può abituare a subirla.” (8)
Si, in un tempo in cui anche la diplomazia sembra impotente difronte a interlocutori frammentati e fuori dalle logiche diplomatiche e mentre i media sembrano condannati a riportare la macabra cronaca ormai multimediale degli eccidi, c’è bisogno di un sussulto delle coscienze che diventi contagioso e attrattivo. 
  Davanti alla tentazione del “silenzio complice” resta il dovere della testimonianza di pace, e del divenire “costruttori di ponti” come era si felicemente espresso Giovanni Paolo II nel citato discorso del 2002 ad Assisi. Un ponte che crolla fa più notizia di tanti ponti realizzati, ma non per questo bisogna smettere di costruirli.
Quanto durerà l’orrore ? Cosa possiamo fare ? Se lo chiedeva lo scrittore Hermann Hesse nel 1917, nel pieno del primo conflitto mondiale: “A nessun altro che ad un esiguo gruppetto di malati di fanatismo o di delinquenti senza coscienza sta a cuore la guerra – eppure – incredibile!… Essa continua ancora (…) Ciò è possibile solo perché siamo troppo pigri, troppo comodi, troppo timidi (…) Muoviamoci dunque! Proclamiamo la nostra volontà di pace in ogni maniera ! (…) E’ venuta l’ora in cui una piccola umiliazione, una ammissione, un moto di umanità non ci possono più far vergogna ! (…) La pace è qui ! E’ qui come un pensiero, un desiderio, come proposta, come forza silenziosamente operante, da tutte le parti, in tutti i cuori. Se ognuno le si apre (…) allora avremo la pace. E avremo contribuito tutti a chiamarla, e potremo sentirci degni dei grandi compiti che essa comporta (…) mentre finora non abbiamo avuto in cuore sentimento più forte che quello della nostra complicità”  (9) .  

Così Hesse lanciava il suo appello sentendo bruciante il senso di complicità che occorre trasformare in responsabilità nell’intervenire con una chiamata alla pace. Il silenzio è complice – concludeva Hesse – ma tutti possono fare la pace, se “ognuno le si apre”. Concludo con queste parole che mi sembrano esprimere bene lo sforzo che dobbiamo fare in questo tempo, facendo però infine notare come gli scritti e gli appelli di Hesse costarono allo scrittore l’accusa di essere un traditore ed un nemico della patria anche da molti intellettuali dell’epoca che quella guerra l’avevano esaltata, predicata, difesa e teorizzata. Se pure non si possono fare troppi paragoni in un contesto molto differente, si potrebbero trovare paralleli su quanto detto prima nelle critiche al papa e a chi cerca vie di pace in questo mondo troppo contrapposto.

Marco Peroni
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9 –   In  Hermann Hesse “Scritti autobiografici”, pag. 206
Marco Peroni
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