Delhi, indagine su una città (e su ogni città globalizzata)
Ho appena finito di leggere “Delhi”, corposo – ma scorrevole – volume di Rana Dasgupta, narratore inglese di origini indiane, edito da Feltrinelli.
Con Dasgupta ci si tuffa nella grande trasformazione che Delhi e tutta l’India hanno subito tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, e ci si rende conto di come tale metamorfosi sia figura di un più generale processo che ha travolto pregi e difetti di mondi passati e li ha immessi di prepotenza nell’era della globalizzazione. Con – anche qui – i suoi pro e i suoi contro. La nuova India e la nuova Delhi sembrano mettere da parte la mutevole e variopinta realtà del pantheon induista per uniformarsi al monoteismo imperante nel nuovo tempo, quello del Dio Denaro, quello del “lakh” (100.000 rupie) e dei “crore” (10.000.000 di rupie, 200.000 euro più o meno), che ricorrono di continuo nel testo. La capitale che ha visto le esequie di Gandhi e il sogno idealista e nobile di Nehru pare aver rinunciato alle utopie egualitarie e sobrie di un tempo, per sposare il ben più concreto e redditizio “Arricchirsi è glorioso” della Cina ex comunista.
I tanti personaggi intervistati da Dasgupta compongono un quadro affascinante, ma ahimé anche inquietante, di una delle megalopoli che stanno forgiando il nuovo mondo e il suo sistema valoriale. Perché ormai il mondo è mondo di città. Perché “per la prima volta nella storia umana, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne: il mondo è divenuto essenzialmente urbano” (Riccardi).
E tante zone del mondo potrebbero davvero somigliare alla capitale indiana nel prossimo futuro, al di là delle differenze di cultura e di continente: reti sociali assenti o fragili, crisi dello spirituale, competitività esasperata, assolutizzazione del sogno del successo: “Vogliono stare tutti nella corsia di sorpasso”, dice uno dei nuovi ricchi di Delhi intervistati da Dasgupta.
Delhi come metafora, allora.
Metafora di un mondo sempre più uniforme, ben lontano dal clash of civilizations di huntingtoniana memoria ed attraversato da una sfida comune, quella della dicotomia tra la civiltà del denaro e quella dell’umano: “Gli chiedo se il mondo sarebbe diverso se fosse gestito dagli indiani”, scrive l’autore ricordando un colloquio con un altro delhiano “di successo”. “‘Sarebbe più spirituale’, dice. Ma poi si ferma un attimo a riflettere: ‘No, sarebbe esattamente lo stesso’”.
Francesco De Palma
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