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Sguardi: Il Ballinstadt, un museo che potrebbe/dovrebbe trovarsi in ogni grande città europea

Il Ballinstadt è un museo poco conosciuto di Amburgo.
Un museo che forse dovrebbe esserci in ogni grande città europea, specie in quelle portuali, nei luoghi da cui milioni di migranti del Vecchio Continente sono partiti alla volta di America, Australia, etc.. 
Il complesso museale ha recuperato i capannoni in cui dal 1850 ai primi anni ‘30 del Novecento cinque milioni di uomini, donne, bambini, provenienti da varie parti d’Europa si fermavano qualche giorno in attesa della loro partenza. Prende il nome, infatti, da Albert Ballin (1857-1918), amministratore delegato della compagnia di navigazione che si occupava della rotta Amburgo-New York, il quale, con senso organizzativo tutto tedesco, aveva voluto costruire una piccola città dell’emigrazione. 

In realtà quella sorta di chalet svizzeri che costituivano il complesso era stata demolita dai nazisti nel 1934. Ma tutti gli edifici sono stati fedelmente ricostruiti nei primi anni di questo secolo, per essere poi aperti al pubblico nel 2007. Oggi ci si muove nelle strutture che una volta erano i dormitori e si può mangiare nel ristorante ricavato nella vecchia sala mensa.
Girare per il museo riempie di emozione. Ci si respira l’aria di 100 anni fa, quando eravamo noi a partire. Ma si è anche toccati dall’epopea dei migranti di oggi. Nelle sale c’è un continuo parallelo tra il presente e il passato: le lettere di sfortunati emigrati di inizio Novecento sono messe a confronto con quelle di profughi di questo inizio millennio, mentre le foto dei piroscafi che solcavano l’Atlantico sono accostate a quelle dei barconi che attraversano il Mediterraneo. 
Il museo ci insegna una cosa semplice, ma importante. Che il muoversi da un posto all’altro è connaturato all’essere umano; che l’emigrazione e l’immigrazione sono qualcosa di strutturale nella storia; che ieri come oggi dovrebbe prevalere uno sguardo più umano nei confronti di chi attraversa i mari per cercare un futuro migliore. Quegli uomini siamo stati noi. Quelli di oggi sono uomini come noi.

Francesco De Palma

a e j l

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