FATTI

Letture: Vincenzo Paglia, “Sorella morte”

L’argomento che ognuno preferirebbe evitare, rimandare il più possibile. Ma anche ciò verso cui tutti noi ci dirigiamo.
Vincenzo Paglia, arcivescovo, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, sceglie di parlare della morte nel suo ultimo lavoro (edito da Piemme), e lo fa con un titolo francescano, “Sorella morte”. 

E’ “un’analisi condotta sulla scorta di una vasta bibliografia, segno di uno scavo prolungato, capace di tener conto delle curve di attenzione del lettore non specialistico, attraverso l’intarsio sapiente di esempi e citazioni e un dettato molto limpido”, ha scritto Gianfranco Ravasi sul “Sole 24 Ore” (http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-11-25/finire-buona-compagnia-161442.shtml?uuid=ADEPzUvB).

Ma il libro non è un trattato teorico. E’, piuttosto, un dialogo con il lettore, un invito ad allargare i propri orizzonti; è un appuntamento fissato con ciascuno di noi perché non distolga lo sguardo, rifletta sulla dignità del vivere e del morire, viva la forza della speranza fino all’ultimo.
La discussione, allora, parte dall’eutanasia, ma si allarga al mistero della morte e della vita. Per comprenderlo non con le consunte parole di un passato ormai logoro, né col muto e apparentemente rispettoso silenzio cui la contemporaneità ci ha abituato di fronte a certi temi, bensì con un approccio nuovo e diretto, fondato sull’esperienza quotidiana, sulle suggestioni delle scienze umane, sul recupero dell’intuizione di fede originaria del cristianesimo. “In effetti, affrontando la questione della morte, non si trovano parole. Il credente deve ripartire da Gesù. Contro il rischio di banalizzare la vita e di occultare la morte”, ha detto l’autore. 
Del resto la morte accompagna tutta l’esistenza: “Inizia il suo lavoro più distruttivo là dove non c’è l’amore e l’uomo resta solo”. Il suo contrario è l’amore, la sfera relazionale ed affettiva dell’uomo, dunque, ed “anche il Paradiso inizia qui: ogni volta che facciamo un gesto d’amore”.
Una parte rilevante del libro è dedicata all’ultima parte della vita, all’età anziana, ovvero all’accompagnamento del morente, “un’esperienza profondamente umana”, che “costringe ad amare, a pensare agli altri e anche a se stessi, alla propria fragilità e al bisogno di aiuto”. Il messaggio centrale del libro è la necessità di accompagnarci gli uni gli altri, sempre, dall’inizio alla fine. In un mondo in cui la solitudine cresce, vita e morte sono ancora più amare, se non sono accompagnate. 
Ecco, sembra dire l’autore, questo accompagnare, questo camminare insieme fino alla fine, questa interdipendenza che non è termine, ma premessa, è la risposta più vera all’eutanasia, o a una certa cultura della morte. Ed è la possibilità di una ritessitura della società e dell’umanità, l’opportunità di riscoprire il nostro essere co-uomini. 
Non a caso un capitolo del libro ha per titolo un verso di John Donne: “Nessun uomo è un’isola”. Ed è bello questo richiamo al poeta inglese, ripensando anche ad un’altra sua poesia, a versi che rimandano alle lettere di Paolo e che sono la grande speranza di una vita che non finisce: “Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata / possente e orrenda. Non lo sei. / Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono, / povera morte, e non mi puoi uccidere. […] Un breve sonno e ci destiamo eterni. / Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai”.

Francesco De Palma
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