Firenze, la forza e il valore della memoria …
Un fiume di persone sospinto dalla forza delle convinzioni, dalla forza debole di una testimonianza disarmata, dalla “forza degli anni”, come il convegno che a Firenze ha fatto parlare gli anziani delle strade possibili per impiegare bene tante energie, anche quelle della memoria che non possono non fare i conti con la Shoah. Così nei giorni scorsi, giovedì sera 16 novembre, la Comunità di Sant’Egidio insieme al Centro internazionale La Pira, i Focolari, gli evangelici, il Comune e la Città Metropolitana di Firenze rappresentate da consigliere Andrea Ceccarelli, le scuole di italiano con i richiedenti asilo e le scuole della pace con i bambini, ha ricordato la deportazione degli ebrei di Firenze, avvenuta il 6 novembre del 1943.
Un vero e proprio pellegrinaggio della memoria – il quinto, a partire dal 2013 – nelle strade del centro storico, partito da via del Corso e in movimento fino alla sinagoga di via Farini, dove i partecipanti al corteo sono stati accolti dal rabbino Amedeo Spagnoletto e i responsabili della Comunità Ebraica – con la vicepresidente Daniela Misul, il consigliere Gadiel Liscia e Sara Cividalli per l’Ucei.
Anche quest’anno, dunque, la Comunità di Sant’Egidio, in accordo con la Comunità Ebraica, ha rinnovato questo gesto al quale hanno aderito tra l’altro la comunità islamica di Firenze, la Comunità Armena, i buddisti della Soka Gakkai. Grazie alla collaborazione dell’Ataf, da Brozzi un autobus ha portato in centro più di cinquanta tra bambini, adulti e anziani, che hanno preso parte al cortero.
La marcia della memoria si colloca nel 2017 a 74 anni dalla prima deportazione degli Ebrei fiorentini.
Può essere utile ricordare alcuni dati.
Il 6 novembre 1943 il comando nazista avviò a Firenze la cattura e la deportazione degli Ebrei fiorentini. Vennero arrestate oltre 300 persone. Il 9 novembre furono caricate sui treni diretti verso Auschwitz, dove arrivarono il 14 novembre. Solo 107 superarono la selezione per l’immissione nel campo: gli altri vennero immediatamente eliminati.
Nell’elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884.
I tedeschi avevano completato l’occupazione di Firenze nel settembre 1943. Qui i nazisti poterono contare per la razzia sul sostegno attivo dei fascisti, in particolare su quello della banda Carità.
Degli Ebrei deportati nei lager dal 6 novembre del ’43 in poi, solo 15 tornarono indietro: otto donne e sette uomini.
Alla cerimonia nel piazzale della sinagoga, dopo il saluto commosso del rabbino Spagnoletto e un intervento del consigliere Andrea Ceccarelli, che ha ripercorso con attenzione e partecipazione le vicende della Comunità ebraica a Firenze, Dario, un liceale del Pascoli, ha letto a nome dei giovani una frase di Anna Frank, tratta dal suo diario: “Noi giovani facciamo doppiamente fatica a mantenere vivi i nostri ideali in un tempo in cui ogni idealismo viene distrutto e schiacciato, in cui le persone fanno conoscere il loro lato peggiore, in cui si dubita della verità, della giustizia e di Dio.
Questa è la difficoltà della nostra epoca: gli ideali, i sogni, le belle aspettative non fanno in tempo a nascere che vengono già attaccati e distrutti dalla realtà più crudele. E’ davvero un miracolo che io non abbia perso i miei sogni dato che sembrano assurdi e irrealizzabili. Eppure li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo ancora nell’intima bontà dell’uomo. Non posso costruire tutto sulla base di morte, miseria e confusione.
“Vedo il mondo mutare lentamente in un deserto sento sempre più spesso avvicinarsi il tuono che ucciderà anche noi, provo la sofferenza di milioni di persone. Eppure se guardo il cielo penso che tutto questo si concluderà per il meglio, che anche questa crudeltà finirà, che nel mondo regnerà nuovamente la tranquillità e la pace. Nel frattempo devo preservare intatti i miei ideali, nei tempi che verranno forse potrò ancora metterli in pratica”.
Questo pensiero del 15 luglio 1944 – ha ricordato Giovanna (allieva di una IV elementare) – è “tra le ultime parole che Anna Frank ha scritto nel suo diario. Anna non ha potuto realizzare il suo sogno di vivere in pace, per questo noi vogliamo impegnarci a realizzarlo credendo nell’amicizia senza essere razzisti”. A questoi punto Greta, anche lei in quarta elementare, ha letto una poesia su Anna: “Come un uccello/messo in gabbia/ tanta sofferenza/ paura e disperazione/ solo per essere ebrea./ Oggi invece è diverso,/ non c’è più la guerra da noi,/ eppure alcune persone/ nutrono ancora odio./ Però tanti bambini/ credono nell’amicizia/ e se anche a quel tempo/ ci fosse stata un po’ più di amicizia,/ tu saresti vissuta!/ Tu avevi tanta speranza/ e cercavi di non avere odio verso nessuno./ Tu Anna non hai potuto volare,/ ma noi voleremo per te e per il tuo sogno!”.
Sono parole che dicono della forza degli anni nei giovani; ragazzi e ragazze che diventano testimoni e che raccolgono, per non dimenticarle, le memorie degli altri, come quelle di Dory Sontheimer, intervenuta in Palazzo Vecchio al convegno “La forza degli anni”, dove ha raccontato la sua scoperta di essere ebrea. Alla marcia di Firenze è stata Renata Calzolari a prestarle la voce e a leggerne la storia:
“Sono nata a Barcellona nel 1946. La seconda guerra mondiale era finita solo da un anno. I miei genitori erano tedeschi e io ricevetti un’educazione cattolica nel collegio di Santa Elisabetta gestito da suore tedesche.
La mia famiglia era formata solo dai miei genitori, da mio fratello e da me. Da piccola mi chiedevo sempre perché fossimo così pochi in casa e la risposta era sempre la stessa: “Morirono in guerra”.
Ho avuto un’infanzia felice. A Barcellona sono cresciuta fisicamente, spiritualmente e professionalmente. Ho fatto la mia carriera universitaria, sono laureata in farmacia. Mi sono sposata con un medico catalano con il quale condivido la mia vita da 48 anni. Abbiamo formato una famiglia di tre figli che a loro volta ci hanno dato dieci nipoti.
Quando compii 18 anni, i miei genitori mi dissero, con una certa segretezza, che le origini della nostra famiglia erano ebree, però mi dissero anche di non dirlo a nessuno perché sarebbe potuto essere pericoloso.
Questa notizia mi sorprese molto ma ricordo che pensai con gran sollievo al fatto che la mia famiglia non fosse nazista.
Mio padre morì nel 1984. Mia madre, nonostante fosse una persona con un carattere forte, cadde in una profonda depressione dalla quale si liberò solo il giorno della sua morte, molti anni dopo. Pochi giorni dopo la morte di mia madre, ho dovuto fare il triste lavoro di raccogliere e riordinare tutte le sue cose. Nella mia camera di ragazza, su di un soppalco, trovai sette casse. In quel momento non potevo immaginare che il contenuto di quelle sette casse avrebbe cambiato la mia vita.
Ogni cassa era etichettata: subito riconobbi la grafia di mio padre. Al loro interno cartelline contenenti fotografie, documenti e lettere, centinaia di lettere che le famiglie dei miei genitori si scambiavano in quei difficili anni. Migliaia di parole con infinità di nomi che per me non significavano nulla, nonostante fossero persone a me molto vicine, come i miei stessi nonni. Era un passato completamente nascosto.
C’erano anche delle fotografie. Ho visto immagini che testimoniano la felicità prima dell’olocausto e immagini del dopo, della “normalità del dopo” se questa è possibile.
Fu una cartellina in particolare a richiamare fortemente la mia attenzione. Era etichettata con il nome “Friburg”. In quella cartellina erano archiviate tutte le lettere che mia nonna Lina aveva scritto ai miei genitori e le risposte che loro le avevano inviato.
Le lettere cominciavano nel 1939, quando mia nonna ancora viveva nella sua casa di Friburgo. Tramite queste lettere ho potuto conoscere il martirio che hanno dovuto sopportare.
I miei genitori si erano conosciuti a Barcellona quando si trovarono lì fuggiti dall’antisemitismo imperante in Germania. I loro genitori, vedendo le difficoltà che avevano gli ebrei in Germania, li avevano mandati a Barcellona per proteggerli. Si sposarono nel 1936, e, quando finì la guerra civile Spagnola, si ritrovarono, ancora una volta, sotto il regime di una dittatura simile a quella dalla quale erano fuggiti.
Per la paura cambiarono identità. Mio padre cambiò il nome in Conrado, e mia madre in Rosita. Si convertirono al cattolicesimo e riuscirono ad ottenere la nazionalità Spagnola con la speranza di poter salvare quanti più parenti avrebbero potuto. Invece furono testimoni impotenti della tragica fine delle loro famiglie.
Negli ultimi anni ho scoperto che più di quaranta persone della mia famiglia furono sterminate solo per il loro essere ebrei. Tra loro i miei nonni materni dei quali non conoscevo neppure i nomi e che furono deportati nel 1940. I miei genitori cercarono di salvarli dal ampo di concentramento di Gurs, a soli trenta chilometri dai Pirenei. Lottarono contro il rifiuto del regime franchista di concedergli un visto di ingresso in Spagna. Fecero di tutto, anche tramite i contrabbandieri dei Pirenei. Tutto fu inutile.
Il 30 agosto 1942 arrivò l’ultima lettera dei miei nonni. Dicevano che erano stati messi nelle liste di deportazione e che non sapevano quale sarebbe stata la loro prossima destinazione.
Furono condotti ad Auschwitz con il convoglio numero 29 insieme ad altre 1.000 persone delle quali 889 furono portate direttamente alle camere a gas.
Cosa dovette rappresentare questo per mia mamma! Pensare che non le fu possibile salvare i suoi genitori…..
Nonostante questo riuscirono a rianimarsi: formarono una famiglia nella quale i loro figli riuscirono a crescere in un ambiente felice ed integrati nella società spagnola. Gli orrori vissuti erano il loro segreto. Non ne parlarono mai, li nascosero fino alla loro morte, fino a che si rivelarono a me, nascosti in quelle sette casse.
Adesso, settantacinque anni dopo l’insediamento al potere di Hitler, posso capire il silenzio dei miei genitori. Però comprendo soprattutto il decadimento delle facoltà mentali di mia madre nel momento in cui morì suo marito, mio padre, il compagno con il quale aveva condiviso tutto, gli orrori vissuti, i silenzi e con il quale era riuscita a riprendersi per poter educare i suoi figli in libertà. Durante i primi anni della sua malattia, mia mamma ogni tanto si metteva a gridare “La Gestapo ci porta via!!! La Gestapo ci porta via!!!”
Ha vissuto tanti anni nascondendo la paura, e questa è riapparsa con la perdita delle sue facoltà intellettuali. Capii che doveva aver sofferto un dramma molto importante che volevo conoscere ma del quale non osavo chiedere per non farla soffrire. Fu dopo aver conosciuto l’interno delle sette casse, che capii mia madre, il suo valore, il suo vigore vitale, la sua malattia e la sua morte. Posso pensare con soddisfazione di aver compiuto il suo desiderio di rimanere a casa propria fino alla fine, circondata dal nostro amore.
Mi piacerebbe terminare con una frase del Mahatma Gandhi: “Dove c’è amore c’è vita”. Ogni essere umano sente l’amore, da quando nasce fino alla fine della sua vita. Grazie per avermi lasciato condividere questo tempo con voi, con la speranza che tutti saremo capaci di costruire un mondo più comprensivo e umano”.
Al termine un’anziana e un bambino, Maria ed Hector, hanno deposto una corona di fiori davanti alla lapide che riporta i nomi di tutti i deportati della Comunità Ebraica di Firenze.
Michele Brancale
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