Una storia Afgana. “Sembra mio figlio”, il film di Costanza Quatriglio.
raggiungerla sia il pensiero costante”.
Kostantin Kavafis
Ero a insieme a Dawood Yousefi, qualche anno fa in un cinema di Parma.
Si stava svolgendo un incontro cittadino, organizzato dalla locale Comunità di Sant’Egidio.
Il titolo dell’evento era: “Il Coraggio della Speranza”.
Si parlava di razzismo, immigrazione, fuga dalla guerra e dalla povertà.
In sala c’erano oltre 600, tra studenti e docenti, venuti da vari licei della città.
Dawood era l’ospite principale dell’incontro.
Quando prese la parola, dopo pochi attimi, nella sala piombò un silenzio profondo e commosso. I ragazzi furono letteralmente rapiti da questo giovane Afgano, di etnia Hazara, dagli occhi dolci e dai modi raffinati. Con voce calma e pacata, raccontò la sua storia bella e terribile allo stesso tempo: quella del lunghissimo viaggio che, ancora in età liceale, dalle valli dell’Hazarajat (Afghanistan Centrale), lo portò, attraverso mille peripezie, fino in Italia dove ottenne lo status di rifugiato e dove ora lavora come operatore in un centro per disabili.
Ascoltare il racconto del viaggio di Dawood, significò frantumare tutti gli schemi mentali con i quali è costruita la narrazione di chi vedeva (e ancor di più oggi vede) i rifugiati come “il problema”.
Dalle sue parole emergeva il dramma di una generazione di giovani che non aveva conosciuto altra condizione che la persecuzione e la guerra; vi si leggeva il sogno di pace e libertà di ragazzi che non si rassegnavano ad un destino già scritto; si percepiva la voglia di lottare per cambiare una condizione che, per chiunque, sarebbe stata impossibile accettare.
E poi la tragedia degli Hazara, una delle etnie che compongono il mosaico di popoli Afgano, da decenni frantumato dalla guerra. Mussulmani sciiti in una nazione a maggioranza sunnita, sono da sempre una minoranza perseguitata e, in passato, vittime di un vero e proprio genocidio.
Da tutto ciò nasceva la scelta di Dawood; cioè il desiderio irresistibile di interrompere una condizione di stagnante e rassegnata immobilità, per mettersi in cammino, intraprendendo un viaggio all’inseguimento di un “grande sogno di vita”.
Rimasi colpito dal rispetto e dall’ammirazione che i ragazzi di Parma, nutrirono verso questo giovane rifugiato Afgano di etnia Hazara. Si identificarono, con molta empatia, nel racconto del suo viaggio, comprendendo bene le parole della poetessa somala Warsan Shire: “Nessuno lascia la propria casa, a meno che, casa sua, non siano le mandibole di uno squalo o la bocca di un fucile”.
Avendo in mente questi ricordi, è stato molto emozionante rivedere Dawood nel ruolo di co-protagonista, assieme a Basir Ahang e Tihana Lazovic, nel bellissimo film di Costanza Quatriglio: “Sembra mio figlio”.
Il film, presentato quest’anno al Festival di Locarno, è ispirato alla vera storia di Mohammad Jan Azad, un ragazzo che la regista ha conosciuto personalmente. Le tragedie della persecuzione degli Hazara, della loro emigrazione, inserite nel più ampio conflitto Afgano, sono lo sfondo di tutta la pellicola che racconta una vicenda familiare.
Ismail ed Hassan, due fratelli Hazara, fuggiti in Italia da ragazzi, cercano di rintracciare la loro madre, con la quale non hanno contatti da anni. Questo è il punto di partenza sulla quale la regista sviluppa tutto il suo lavoro. Il pensiero costante dei due fratelli inizialmente fu quello di salvare la propria vita. Una volta raggiunto questo obiettivo si fa largo un nuovo pensiero: quello di riunire la loro famiglia dispersa e riconciliarsi con le proprie radici. In questa dualità c’è tutto il mondo interiore dei migranti di ogni latitudine geografica e di ogni epoca storica.
E’ molto efficace la scelta della Quatriglio di far parlare, più che i dialoghi, prevalentemente le immagini, riuscendo ad entrare, con delicatezza, nella psicologia di questo popolo dell’Asia Centrale oppresso dalla storia, dove la comunicazione è fatta spesso di sguardi profondi e poche essenziali parole.
E’ un film che colpisce al cuore per la sua intensa e poetica drammaticità perchè parla ai nostri sentimenti più intimi.
Una storia Afgana, come quella che Dawood raccontò ai liceali di Parma, che, con semplicità, senza inutili enfasi, diviene un grido forte contro la guerra e le ingiustizie della nostra epoca.
Francesco Casarelli
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