Un anno fa ci lasciava il prete delle baracche della Roma anni ’70
Don Roberto Sardelli nacque a Pontecorvo, in Ciociaria, nel 1935, e venne ordinato sacerdote nel 1965 dopo aver studiato al Collegio Capranica.
Nel 1968, fu nominato viceparroco a Roma, nella Chiesa di S. Policarpo, non lontano dalla baraccopoli che era sorta a ridosso dell’Acquedotto Felice, periferia sudest. In quegli anni, più di 600 famiglie erano costrette a vivere in rifugi di fortuna, costruiti con legno, paglia e lamiere, locali privi di ogni servizio. Gli archi dell’antico acquedotto romano erano l’unico riparo per una comunità di emigranti per lo più calabresi e abruzzesi, impossibilitati ad avere un alloggio regolare.
Don Roberto decise di lasciare la parrocchia dove era alloggiato e dove svolgeva il suo ministero: il 4 novembre 1969 andò anche lui a vivere in una di quelle baracche, per condividere in tutto la loro vita.
La sua baracca è la 725, dal numero civico della strada e diverrà la sede della scuola che a breve aprirà per i bambini ed i ragazzi dell’Acquedotto. Don Roberto aveva conosciuto l’esperienza di don Lorenzo Milani a Barbiana, per poi andare anche in Francia a studiare la vita dei “preti operai”. Esperienze che lo segnano e lo formano nell’esercizio del suo ministero sacerdotale.
Nella sua baracca iniziò ad insegnare ai bambini che erano più in difficoltà nell’apprendimento: erano quei bambini che spesso finivano nelle classi differenziate.
Sull’esempio di don Milani, la scuola di don Roberto era “a tempo pieno”: ogni momento della giornata era buono per apprendere qualcosa. Il compito di don Roberto era permettere ai ragazzi di recuperare gli anni scolastici perduti, ma lui ambiva anche a renderli coscienti della situazione in cui vivevano.
Con don Roberto, si facevano prima i compiti della scuola regolare, ma poi si proseguiva studiando letteratura, si leggevano insieme e giornali, libri, ragionando e commentandoli insieme: “ci si impadroniva della cultura”!
Con i ragazzi, don Roberto pensò di scrivere nel 1970, una “Lettera al sindaco”. Il primo cittadino di Roma era, al tempo, Rinaldo Santini: a lui si presentarono le istanze per chiedere migliori condizioni di vita, cioè “un più decente luogo per vivere”.
Nella stesura della lettera si utilizzò un linguaggio semplice, ma diretto:
“Noi dell’Acquedotto non vogliamo le baracche, ma case vere. Le vogliamo più comode e che non entri l’acqua dal tetto. Le case le vogliamo pitturate con i colori, le vogliamo pulite, senza topi e scarafaggi. Il luogo dove viviamo è un inferno, l’acqua nessuno può averla in casa, la luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno, il caldo soffocante d’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare l’immondizia a cento metri dalle baracche, siamo in un continuo pericolo di malattie”.
La Lettera fece molto scalpore, suscitò scandalo per le misere condizioni in cui quelle famiglie erano costrette a vivere. Era una vera e propria critica alla città, perché permetteva che alcuni cittadini vivessero ancora in baracca e senza servizi.
In effetti, nel 1974, ci fu la svolta: a tutti coloro che vivevano nelle baracche all’Acquedotto Felice, furono assegnate le case popolari a Nuova Ostia.
Così, si concluse l’esperienza del “don Milani dell’Appio Claudio” – da una felice espressione giornalistica del tempo – con l’assegnazione delle case popolari. Ma, don Sardelli aveva già osservato e capito che vi erano nuove situazioni critiche da affrontare: doveva iniziare una battaglia anche per far uscire dal ghetto anche i malati di AIDS e i rom, rimanendo fedele alla sua scelta di condividere l’esistenza con gli ultimi della città.
Già malato da tempo, è morto a Roma il 18 febbraio del 2019 ad 84 anni, dopo aver ricevuto una laurea “Honoris causa” in Pedagogia dall’Università degli Studi Roma Tre.
Ci ha lasciato una grande lezione di vita e di umanità, affidandoci come il suo tesoro più prezioso una vita passata al servizio con i soli e gli emarginati.
Germano Baldazzi
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