CHIESACOMMENTI

Permesso, grazie, scusa, le parole della convivenza

«Permesso, grazie, scusa, ecco le parole della convivenza: se si usano la famiglia va avanti». Ripensavo alle parole del Papa mentre, attraversando la città, notavo una certa maleducazione esibita, che non saprei dire se espressione di un fenomeno in aumento negli ultimi anni o se solo mi colpisce di più oggi che mi avvicino alla cinquantina.  Mi chiedevo se non valga la pena riflettere sul valore della cortesia nei rapporti umani, a tutti i livelli. Il papa parlava delle famiglie certo, ma non credo si riferisse solo alle dinamiche fra moglie e marito, genitori e figli. Proviamo a considerarlo come un consiglio valido per l’intera famiglia umana. Troppo ingenuo?  Troppo semplice ? Troppo formale ? Chiariamo subito che non bisogna confondere “bon ton”  con la cortesia, lo snobismo formale con l’attenzione all’altro che richiede una premura fatta anche di parole e gesti cortesi. Quindi proviamo ad approfondire ciascuna delle tre parole, con qualche breve considerazione, lasciando ai lettori la libertà di approfondire la riflessione aggiungendo i propri commenti per ciascuna parola.


Permesso. Esprime apertamente il riconoscimento che l’altro esiste e che per entrare in rapporto occorre un certo rispetto, come entrando in punta dei piedi per non disturbare. Troppe volte un’eccessiva considerazione di se stessi porta a considerare gli altri qualche cosa di molto inferiori a sé, per cui sembra lecito essere invadenti. Anche verso chi si crede di stimare e amare. Il nostro ego ci possiede talmente che, a meno dall’essere bloccati dal rispetto formale verso un superiore, non consideriamo importante metterci nella condizione di chiede permesso ad un altro. Tale difetto rende difficile l’ascolto dell’altro e l’attesa del proprio turno in una discussione. Riguardando su RAI Storia alcuni spezzoni  di tribune politiche di tanti anni fa (a parte sorridere al fatto che fumavano in studio) colpisce la pacatezza del confronto verbale se comparata al moderno talk show in cui il litigio ed il parlarsi sopra, interrompendo l’altro alla terza parola, sembra il clichè inevitabile. Ma non è solo fenomeno da televisione. Si incontra facilmente in conversazioni a tavola, fra amici e colleghi quando ognuno si crede detentore di quell’accezione particolare, che differenzia dagli altri e che autorizza ad interrompere l’altro per ribadire il proprio punto di vista. Il risultato ? Trionfo del soliloquio e morte della comunicazione. Meglio chiedere permesso.


Grazie. Parola più usata. Chi non ha preteso da un bambino questa “parolina magica”? Fra adulti sembra meno importante e si lascia correre quando manca. Eppure la gratitudine non può essere sottintesa.
Ringraziare è riconoscere quanto prezioso è stato l’altro per te. Una piccola parola per dire che l’esistenza dell’altro ha reso più felice la propria. Si può comunicare la gratitudine in tanti modi, ma certamente le parole, e questa parola, sono il modo più immediato. E’ manifestazione esteriore di sentimenti interiori di riconoscenza. Scriveva Seneca: “ingrato è chi nega il beneficio ricevuto; ingrato chi lo dissimula; più ingrato chi non lo restituisce; ma di tutti il più ingrato è chi lo dimentica”.  Certamente anche la parola “grazie” può diventare solo una risposta formale, un’interazione automatica, se ne può perdere il significato profondo. Ma questo vale per ogni parola e ogni forma di comunicazione e di rapporto.

Scusa. Parola meno usata. Secondo alcuni sondaggi sarebbe fra le 5 più difficili da pronunciare. Soprattutto se detta con convinzione e non come modo di mettere a tacere l’altro (particolarmente i genitori quando ripetuta di seguito più volte dai figli in ritardo…). Ci costa molto e prima di ammetterla abbiamo già pronte mille giustificazioni da anteporre o da posporre ad essa. Qualcuno, come al solito, ha provato a “giustificare le giustificazioni”: secondo alcuni ricercatori della Business School dell’Università del Queensland chi non si scusa proverebbe una specie di senso di potere e un aumento dell’autostima che produrrebbe degli effetti benefici a livello psicologico.  Permettetemi di far notare che questi ricercatori non solo hanno ignorato il rapporto con l’altro descrivendo solo gli effetti sul singolo, ma soprattutto hanno considerato solo gli effetti immediati e non quelli a lungo termine sulla convivenza.
Nel film cinese “La storia di Qui Ju” che si è aggiudicato nel 1992 un Leone d’oro al Festival di Venezia, una bellissima contadina analfabeta pretende le scuse formali del capo villaggio che ha sferrato un calcio nei genitali di suo marito. La donna non vuole un risarcimento in denaro anche se riesce ad ottenerlo rivolgendosi al tribunale: vuole che il capo villaggio dica “mi scuso”, non si accontenta che esprima il suo dispiacere per il fatto. Alla fine, con molta fatica riesce ad ottenere le scuse formali. Il film presenta la protagonista come un’eroina, un esempio da imitare se si vuole che equilibrio e armonia regnino in questo mondo.  Il valore dell’esempio per il bene della convivenza comune piuttosto che accontentarsi del risarcimento personale.

Tre parole, come pillole di saggezza della convivenza, che possono aiutarci a riflettere sul fatto che i rapporti umani non si possono dare per scontati, ma vanno costruiti, cercando di rendere espliciti i sentimenti più profondi, a partire dai modi più semplici, come semplici possono essere delle singole parole, premessa da cui partire per imparare l’arte del convivere.

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Marco Peroni
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