FATTI

La bontà illogica della gente ordinaria

L’estate non è soltanto il momento del ristoro fisico. E’ anche una preziosa opportunità per dedicarsi alla lettura e per ritornare – perché no? – a letture importanti, fondamentali per la comprensione delle drammatiche vicende del secolo scorso. Come non rileggere l’epico romanzo  di   Vasilij   Grossman,  Vita e destino, attraverso il quale lo scrittore ebreo sovietico, originario dell’Ucraina, mise in luce le caratteristiche dei totalitarismo.  Ricorda Grossman che “la prima metà del XX secolo passerà alla storia dell’umanità anche come l’epoca dello sterminio capillare di enormi strati della popolazione europea in nome di teorie sociali e di razza. […] E non furono decine di migliaia né di milioni, bensì moltitudini sterminate i testimoni rassegnati e docili di questa strage degli innocenti. Non solo: quando era loro ordinato, quegli stessi testimoni votavano a favore dello sterminio, acclamando a gran voce il massacro. Tanta succube obbedienza pareva inimmaginabile. Che cosa ne deduciamo?   Un nuovo tratto della natura umana ? No. Piuttosto un nuovo modo, tremendo,  di plagiare gli esseri umani. La violenza estrema dei sistemi totalitari si è mostrata capace di paralizzare i cuori su interi continenti. […] Per sopravvivere l’istinto scende a patti con la coscienza. In suo soccorso sopraggiunge la forza ipnotica di idee grandiose. Che esortano a compiere qualunque sacrificio, a usare qualunque mezzo per raggiungere lo scopo supremo: la grandezza futura della Patria, la felicità del genere umano, di una nazione o di una classe, il progresso mondiale.” Lo stesso Grossman prima di divenire un lucido e tenace oppositore del regime sovietico era decisamente allineato alle volontà del partito. Molti personaggi del romanzo ben rappresentano lo spirito, l’ideologia del partito. Si tratti di uomini che hanno sacrificato tutta la loro vita per il partito, come il funzionario Getmanov: “Lo spirito del partito doveva permeare anche l’atteggiamento dei dirigenti verso qualunque questione, libro o quadro, e dunque, per quanto difficile fosse, se gli interessi del partito contraddicevano le simpatie personali, si era tenuti a rinunciare senza battito di ciglia a eventuali consuetudini o al libro preferito. Getmanov tuttavia sapeva che c’era un livello ancora più alto di appartenenza al partito, dove nessuno aveva inclinazioni o simpatie proprie, e dove ciascuno aveva a cuore solo e soltanto ciò che stava a cuore al partito. Talvolta i sacrifici di Getmanov erano stati crudeli, durissimi. Non esistevano compaesani né maestri (a cui tanto si deve sin da ragazzi), non esistevano amore né compassione [….] sentimenti privati come l’amore, l’amicizia e lo spirito di campanile non potevano semplicemente esistere”. Grossman desiderava mettere in evidenza la menzogna dell’ideologia totalitaria che si basava sull’idea del bene sociale. Non volle con il suo voluminoso romanzo solamente scegliere per l’irriducibilità della libertà dell’uomo, ma testimoniare la violenza dell’idea del bene universale: “Ho visto la forza incrollabile dell’idea del bene sociale, che è nata nel mio paese. L’ho vista nel periodo della collettivizzazione forzata e nel Trentasette. Ho visto uccidere nel nome di un ideale bello e umano come quello cristiano. Ho visto le campagne morire di fame, e i figli dei contadini che morivano tra le nevi della Siberia; ho visto le tradotte che da Mosca, Leningrado e altre città della Russia portavano in Siberia centinaia di migliaia di uomini e donne, i nemici della grande, luminosa idea del bene sociale. Era un’idea bella e grande, e ha ucciso senza pietà, ha rovinato le vite di molti, ha separato le mogli dai mariti, i figli dai padri”.
Per Grossman è sconvolgente la passività delle vittime, pochi si ribellano. La totalità accetta la propria tragica sorte. Tuttavia, non tutte le persone – anche nei momenti più disumani – si piegano alle logiche della guerra e della dittatura. Più di altri Grossman è stato capace di mettere in rilievo, con i suoi romanzi, le diverse forme di resistenza morale all’interno della società sovietica. Nel romanzo ci sono tanti episodi di bontà insensata di cui sono protagonisti non eroi ma gente comune: “oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un nemico ferito, la bontà della gioventù che ha pietà della vecchiaia, la bontà del contadino che nasconde un vecchio ebreo nel fienile….. E’ la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla. … In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati e nazioni o del bene universale, … in quest’epoca di terrore e follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa”.
Piccoli gesti di cui il romanzo è pieno, come quello della vecchia Christia Cuniak, che accoglie in casa sua un soldato russo riuscito casualmente a scappare dividendo con lui lo scarso cibo nonostante le violenze subite durante la collettivizzazione forzata o della donna che rinuncia a linciare un soldato tedesco dopo la sconfitta di Stalingrado offrendogli invece un pezzo di pane. Non sempre il male si afferma sul bene, non tutti si piegano alla pervasività dell’odio. Grossman ci suggerisce una risposta: “Avendo appurato che l’essere umano china il capo di fronte a una violenza senza limiti, è bene trarre anche un’ultima deduzione, utile per comprendere l’uomo e le sue sorti future. Nella morsa della violenza totalitaria la natura umana subisce un mutamento, si modifica? L’uomo perde il proprio desiderio innato di libertà? Dalla risposta a queste domande dipendono le sorti dell’uomo e del totalitarismo. Una mutazione della natura umana implicherebbe il trionfo universale ed eterno della dittatura, mentre l’anelito inviolabile alla libertà condannerebbe a morte il totalitarismo. La gloriosa rivolta del ghetto di Varsavia, a Treblinka e a Sobibor, per esempio, l’imponente movimento partigiano in decine di paesi che Hitler aveva asservito, i disordini di Berlino del 1953 e in Ungheria nel 1956, dopo la morte di Stalin, così come le rivolte nei lager della Siberia e dell’Estremo Oriente sovietico, i moti di liberazione della Polonia, il movimento studentesco per la libertà di pensiero in numerose città, gli scioperi in molte fabbriche, hanno dimostrato che il desiderio di libertà non può essere sradicato. È stata soffocata, la libertà, ma è sopravvissuta. Un uomo ridotto in schiavitù diventa schiavo per volontà della sorte, non per sua natura. Il desiderio congenito di libertà non può essere amputato; lo si può soffocare, ma non distruggere. Il totalitarismo non può fare a meno della violenza. Se vi rinunciasse, cesserebbe di esistere. Il fondamento del totalitarismo è la violenza: esasperata, eterna, infinita, diretta o mascherata. L’uomo non rinuncia mai volontariamente alla libertà. E questa conclusione è il faro della nostra epoca, un faro acceso sul nostro futuro”.

Antonio Salvati

Marco Peroni
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