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“I poeti lavorano nel buio”. A dieci anni dalla morte di Alda Merini

Donna di grande cultura, con una sensibilità poetica tra le più profonde del Novecento, Alda Merini è anche un caso editoriale: la sua poesia si vende, tanto che di lei si è pubblicato tutto, anche le poesie brutte, quelle che normalmente i poeti gettano via.
La forza dei suoi versi è, sin dall’inizio, evidente, tanto da far dire a Pasolini, di una Merini agli esordi, la frase seguente: “Di fonti per la bambina Merini non si può certo parlare: di fronte alla spiegazione di questa precocità, di questa mostruosa intuizione, di una influenza letteraria perfettamente congeniale, ci dichiariamo disarmati.” 
Vorrei dissipare alcuni pregiudizi che si hanno sulla poetica della Merini: il suo canto non è un canto di un folle. Non è neanche il dolore la fonte del suo canto. La fonte del suo canto è un amore smisurato per la vita. Quella della Merini è una sensibilità più acuta di quella normale. È come se si fosse trovata a descrivere il mondo visibile in un tempo di ciechi, che non sanno cosa significa vedere, e ritengono follia le descrizioni di oggetti visibili. In lei tutti gli elementi della cultura – cultura classica la sua – tendono a descrivere sentimenti e sensazioni in un modo decisamente nuovo. Questa sua novità è data dall’efficacia delle descrizioni, nelle quali improvvisamente appare una parola che non attendevamo, ed è proprio quella parola che rende tutto più luminoso, che squarcia il velo che fino a quel momento avevamo su quel dato sentimento. Il genio è nella forma di questa visione, nell’accostare i significati in maniera nuova, generando nuove espressioni.
La poesia della Merini ha quella forza che parla comunque a tutti. Nonostante usi lo stesso linguaggio di Raboni, di Magrelli e di altri poeti contemporanei, quando leggiamo le sue liriche sentiamo qualcosa in più, sentiamo quella profondità di cui abbiamo bisogno in alcuni momenti. È per questo che le sue liriche superano la prova del lettore non necessariamente interessato alla poesia. Per questo le sue poesie sopravvivono più di quelle di Pasolini stesso o di altri.
Per quel che riguarda la follia, per quanto sia presente in molte liriche, non è una parte determinante del suo atto poetico. Intendo che la precisione con la quale descrive le situazioni interne al manicomio è per lei stessa una liberazione dalla follia, riscatto dalla violenza subita. Essa è un accidente avvenuto alla persona Alda Merini, che la fece soffrire come hanno sofferto tantissimi uomini afflitti dalla malattia mentale. 
La vicenda di Alda Merini a me pare evidenzi come la società certe volte rifiuti le parti migliori di se stessa perché, per qualche motivo – nel nostro caso un disturbo psichiatrico – non riescono a conformarsi. La società italiana spesso si è trovata a essere più arretrata del resto d’Europa. Faceva dire Pasolini a Orson Wells nel cortometraggio La Ricotta: “il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”.
Non penso sia un caso che tre delle menti poetiche più luminose del Novecento italiano abbiano avuto a che fare con il manicomio: Umberto Saba, Dino Campana ed ovviamente la Alda Merini. Voglio dire con questo che l’effetto del conformismo aggressivo su una mente fragile e divergente potrebbe essere una delle cause della follia di queste persone. 
Per concludere, tornando ad Alda Merini, di cui in questi giorni si celebra il decennale della morte, vorrei riportare una poesia sui poeti che, per motivi personali, amo molto. 

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro, 
quando tace il rumore della folla 
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere iddio
ma i poeti nel loro silenzio
fanno più rumore
di una dorata cupola di stelle.

Luca Giordano

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