Due interessanti articoli, sulla “Repubblica” e sul “Corriere della Sera” hanno la settimana scorsa indagato le reazioni rispettivamente degli studenti francesi ed italiani all’indomani dell’ondata terroristica scatenatasi a Parigi e dintorni tra il 7 e il 9 gennaio.
Come sono stati vissuti e metabolizzati quei tre giorni fra i banchi dove studiano e crescono insieme bambini e ragazzi di diversa origine e religione? Questa la domanda di partenza per entrambi i quotidiani.
I professori italiani – cominciamo da loro – hanno “respirato la paura dei ragazzi, una paura fortissima. Mi hanno quasi aggredito per chiedermi cosa ne pensassi dei fatti del giorno prima. E’ dalla ripresa della scuola che molti di loro sono convinti che il prossimo attentato sarà a Roma”. E poi: “Vede che avevamo ragione, prof? Mi hanno detto”. L’attacco a Charlie Hebdo è sembrato confermare pregiudizi e luoghi comuni, il bersaglio preferito delle nostre spiegazioni ex cathedra. La cupa evidenza dei fatti è parsa vincere ogni sforzo di razionalizzazione, ogni distinguo. E comunque, sottolineano altri insegnanti, “la scuola resta il luogo migliore per lavorare al disinnesco della reattività, che è un residuo animale della nostra anima. La cultura è il maggiore e più potente strumento contro la costruzione della contrapposizione”. E’ interessante notare come molti studenti di religione musulmana abbiano partecipato ai dibattiti organizzati in classe; a volte più sulla difensiva, a volte solidarizzando pienamente col principio della libertà di stampa, hanno comunque arricchito e reso più articolato il confronto: “Sì, questi eventi fanno pensare che la religione islamica sia violenta, ma confondere musulmani e terroristi significa darla vinta ai terroristi stessi”, ha detto Zahra Bel Ahrache, mamma italiana e papà marocchino. “Certo è incredibile – ha commentato una professoressa – che non sia stata ancora introdotta nelle nostre scuole un’ora di storia delle religioni”. “Nessuno vuol mettere in discussione l’insegnamento della religione cattolica che è frutto di un accordo fra Stati”, rilancia un docente dell’Università di Padova, “ma sono convinto che un’ora di storia delle religioni potrebbe servire ad aprire le menti al rispetto delle differenze. Non sarebbe poca cosa”.
Più scottante e urgente il tema – ed è ovvio che sia così – nelle classi francesi. Più radicale la sfida. Più estreme le implicazioni. Che portano finanche al rifiuto della ritualità repubblicana di solidarietà alle vittime ed alla laicità. “Gli studenti rifiutavano quel minuto di
silenzio. Lo sentivano estraneo. Un’imposizione. E motivavano questa scelta con frasi forti, scioccanti. Tipo: ‘Se la sono cercata’. So che in alcuni istituti si è rischiato lo scontro tra favorevoli e contrari. Spesso si è preferito sospendere il dibattito. La tensione era troppo alta. Ci abbiamo riflettuto e quando i discorsi sono continuati sulla rete e sui blog, con insulti fino alle minacce, allora abbiamo capito quanto fosse profondo il fossato tra la Francia musulmana e quella laica”, ha dichiarato una professoressa di francese in una banlieue. L’universo giovanile francese rischia una polarizzazione pericolosa, sintomo di un disagio più vasto e di una problematica che richiede un’opera di comunicazione e di riflessione certo più paziente e impegnativa di ogni
azione repressiva. Del resto in Francia ci sono otto milioni di musulmani. In molte case di cittadini francesi non si è discusso solo dei morti e della strage, ma si è parlato anche delle offese al Profeta. E, per converso, si sono registrati ben 50 episodi di danneggiamento di moschee o di intolleranza nei confronti di musulmani in sette giorni. Occorrerà ricucire un tessuto lacerato. E, forse, parlando coi ragazzi, insistere non tanto sulla laicità, quanto sul valore della vita umana, la cosa, alla fin fine, che dovrebbe unire tutti, giovani e no, a prescindere dal credo o dall’etnia.
Francesco De Palma
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