CHIESA

La navicella di Pietro e il “mare del meticciato”

Secondo La Pira il Mediterraneo obbligava a vivere insieme o a combattersi irriducibilmente. Papa Francesco, richiamandosi a La Pira ed aggiornando la sua visione, ha inteso dire con forza che il “mare che è in mezzo alle terre” può essere un laboratorio della civiltà del convivere.

Già un anno e mezzo fa l’appuntamento dato da Bergoglio a Bari ai leader delle chiese cattoliche, ortodosse, siriache e copte era stato un momento coinvolgente e incoraggiante, l’occasione per denunciare la tragedia della guerra in Medio Oriente, ma anche per riaffermare la volontà di un futuro differente: Bari era divenuta “la capitale dell’unità”.

Ebbene, è a Bari che il papa è voluto tornare, incontrando gli episcopati dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per “avviare un processo di ascolto e di confronto, con cui contribuire all’edificazione della pace in questa zona cruciale del mondo”. E’ il sogno di Abu Dhabi che continua a declinarsi, è l’idea di radicare il dialogo – e la “convivialità”, ha aggiunto Francesco, accogliendo il termine proposto dai vescovi – come cifra dell’essere cristiani tra i popoli che vivono attorno al Mediterraneo, simbolo del nostro mondo globalizzato, figura di una coabitazione che avvicina i continenti: “Il ‘Mare nostrum’ […] proprio in virtù della sua conformazione, obbliga i popoli e le culture che vi si affacciano a una costante prossimità, invitandoli a fare memoria di ciò che li accomuna”.

Plurale per vocazione, luogo dell’osmosi e dello scambio, “il grande mare” è stato “il più dinamico luogo di interazione tra società diverse sulla faccia del pianeta, giocando nella storia della civiltà umana un ruolo più significativo di qualsiasi altro specchio di mare” (Abulafia). La sfida del presente è quella di lavorare perché esso non sia mai frontiera – tra Nord e Sud, tra società ricche e società povere, tra Occidente e Islam -, bensì, ancora una volta e sempre, luogo di convivenza e di sintesi.

La preoccupazione del vescovo di Roma è anzitutto quella di comporre gli scontri che agitano il bacino mediterraneo e fanno soffrire uomini e nazioni: “L’area del Mediterraneo è insidiata da tanti focolai di instabilità e di guerra. [Ma] la guerra […] è un’autentica follia, è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche. È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: [essa] abbruttisce chi colpisce e chi ne è colpito, e rivela una concezione miope della realtà, priva del futuro non solo l’altro, ma anche se stessi”.

“Tra coloro che nell’area del Mediterraneo più faticano”, Bergoglio ha voluto citare “quanti fuggono dalla guerra o lasciano la loro terra in cerca di una vita degna dell’uomo […]. Siamo consapevoli che in diversi contesti sociali è diffuso un senso di indifferenza e perfino di rifiuto […] che porta ad alzare le difese davanti a quella che viene strumentalmente dipinta come un’invasione”. Ma “la retorica dello scontro di civiltà serve solo a giustificare la violenza e ad alimentare l’odio”. E’ in tale prospettiva che il papa ha stigmatizzato “i leader delle nuove forme di populismo” e ha invitato a “non addolcire il dramma di Gesù Bambino” rifugiato.

“Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare […]: è il mare del meticciato”, ha riassunto Francesco. L’essere meticci perde nel magistero pontificio ogni connotazione negativa e si staglia come figura di quello che è già un po’ il mondo di oggi ed ancor più sarà il mondo di domani: “Essere affacciati sul Mediterraneo rappresenta una straordinaria potenzialità: […] il dialogo permette di incontrarsi, di superare pregiudizi e stereotipi, di raccontare e conoscere meglio sé stessi”. C’è anzi bisogno “di elaborare una teologia dell’accoglienza e del dialogo, che reinterpreti e riproponga l’insegnamento biblico”.

“Ecco l’opera che il Signore vi affida per quest’amata area del Mediterraneo”, ha concluso il papa: “Ricostruire i legami che sono stati interrotti, rialzare le città distrutte dalla violenza, far fiorire un giardino laddove oggi ci sono terreni riarsi, infondere speranza a chi l’ha perduta ed esortare chi è chiuso in se stesso a non temere il fratello”.

Oggi nessun paese è solo con la propria storia, col proprio presente. Lo vediamo bene al tempo del coronavirus, del cambiamento climatico, della comunicazione istantanea. Nessun paese è un’isola. Tanto meno lo sono quelli del Mediterraneo, grande “lago” attorno a cui tensioni e opportunità si riverberano velocemente. Questo spazio, che è la più straordinaria stratificazione di vicende e di diversità che la storia ricordi, è stato tante volte al centro di una civiltà della convivenza. Tale può e deve tornare ad essere, perché questa è la prova cui la storia ci ha condotti.

Francesco De Palma

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