La scuola, all’uscita dal tunnel …
Siamo agli inizi della Fase 2. In questo tempo in cui si ragiona sulla ripresa delle attività consuete un grande tema è la scuola, e come essa può “convivere” con la pandemia.
C’è chi sottolinea la necessità di andare incontro alle esigenze dei genitori man mano che questi tornano al lavoro. Chi si occuperà dei più piccoli, tanto più che molti nonni saranno a malincuore costretti a rinunciare a passare del tempo con i nipoti? E’ la domanda posta per lettera da Saverio, sette anni, al presidente della Repubblica: “Se i genitori vanno al lavoro e noi non possiamo stare dai nonni, dove si sta?”. Va però anche detto che la funzione della scuola non può essere solo quella di porsi come soluzione del binomio famiglia-lavoro. E poi c’è il problema della sicurezza del corpo docente e di chi altro lavora in scuole pensate in un altro mondo e per un altro tempo, quelli pre-coronavirus, senza la preoccupazione del distanziamento sociale.
Si discute allora della didattica a distanza. E’ una formula – si dice – che non riesce ad aiutare tutti gli alunni del Paese, che rischia di acuire le disparità tra chi ha migliori possibilità da un punto di vista informatico e chi no, tra chi può contare su un più puntuale supporto a casa e chi no. La marginalità sociale, le limitazioni culturali, il differenziale di risorse economiche, il digital divide, incidono ovviamente sui risultati della didattica online, molto più di quanto avvenga nelle aule tradizionali. Il problema non è solo di dotazioni tecnologiche – il Ministero e moltissime scuole si sono attivate per fornire tablet e quant’altro agli studenti più in difficoltà -, né di maggiore o minore consuetudine con la modalità telematica da parte dei docenti. Il punto è che una scuola “non in presenza” finisce giocoforza per penalizzare le condizioni di svantaggio.
In realtà ci rendiamo sempre più conto che la forza dell’insegnamento è un “essere con” che nessun device può sostituire. Se è vero che la didattica a distanza, grazie alla disponibilità ed alla professionalità di tanti insegnanti, ha rappresentato un modo di far fronte all’emergenza, è altrettanto vero che quando l’emergenza si fa continuità, tempo lungo, si percepiscono i limiti di un intervento formativo da remoto. Se così non fosse tanto varrebbe metter su la scuola immaginata da Asimov alla metà del secolo scorso, in un piccolo classico della fantascienza, “Chissà come si divertivano!”. In quel racconto Margie, che ha un insegnate meccanico dedicato, scopre che nel vecchio mondo “i ragazzi di tutto il vicinato sedevano insieme in classe, imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare. E i maestri erano persone …. Chissà come si divertivano!, pensò”.
Ora, la scuola “in presenza” può non esser sempre divertente. I docenti sono come tutti, hanno pregi e difetti. Il loro lavoro può essere più o meno stimolante. Ma è l’unico in grado di farci saltare quell’asticella che non vorremmo mai saltare. Il maestro, la professoressa, seguono gli studenti più deboli, li aiutano, li spronano. Colgono gli umori della classe, se ne fanno carico, richiamano l’attenzione di tutti, rimproverano e orientano. In una parola accompagnano come nessun tablet potrà mai fare.
Massimo Recalcati, che dice di essere tra quelli che anacronisticamente credono ancora “nel modello tradizionale della lectio ex cathedra” ricorda come sia “solo la testimonianza dell’insegnante e della sua parola [ad] accendere o spegnare il desiderio di sapere negli allievi”. E la scuola di Barbiana aggiunge, in “Lettera a una professoressa”: “Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio”.
Ecco. La questione è soprattutto se un docente sente gli alunni come propri figlioli. Se sta loro “accanto”, nei tanti modi che gli/le sono possibili oggi e – meglio ancora – gli/le sono o saranno possibili domani e dopodomani. Perché – scrive Francesca Giusti in “Lettera di una professoressa” – “passa l’affetto che hai. Senza un forte legame affettivo non si produce apprendimento di sorta”. Più “figliolanza”, più “affetto”: questo è ciò che serve. Poi se ci sarà un tablet in più, tanto meglio. Ma è l’umanità del docente che passerà, che farà passare qualcosa. Non altro.
In una bella e profonda omelia di un paio di settimane fa papa Francesco ammetteva: “Qualcuno mi ha fatto riflettere sul pericolo che stiamo vivendo, questa pandemia ha fatto sì che tutti comunicassimo anche religiosamente attraverso i media […]. È vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci”.
Tutto ciò riguarda anche la scuola. La didattica a distanza non è “la” risposta. E’ quel che abbiamo a disposizione per ora, per uscire dal tunnel. Ma non è l’ideale e non lo sarà mai. L’umanità, l’affetto, l’insegnante che ti pone davanti la lettura o il compito che non vorresti affrontare, forse anche – perché no? – la tanto vituperata lezione frontale, sono ciò che ci aspetta non appena il tunnel sarà finito. E quella sarà scuola.
La scuola che, ci insegna Malala, con poche cose davvero – “un bambino, un insegnante, un libro, una penna” – può cambiare il mondo.
Francesco De Palma
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