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Stati Uniti: voglia di normalità …

Alla fine Biden l’ha spuntata. Almeno ad assicurarsi la qualifica di “President-elect”. Per l’insediamento al 1600 di Pennsylvania Avenue dovrà aspettare metà gennaio e quel che accadrà in questi due mesi dipenderà tanto dall’umoralità di Trump, quanto dalla responsabilità delle élites repubblicane. Difficile fare previsioni, ma l’impressione è che gli interessi in gioco e la voglia di normalità – su cui si ritornerà fra breve – guideranno gli eventi in maniera coerente (poi, certo, il populista-in-chief può sempre mettersi a fare il dr. Stranamore, ma speriamo di no …).

Fatto sta, in ogni caso, che Sleepy Joe ha vinto bene. Molto bene. Ha mobilitato l’elettorato come mai nessuno prima, risultando il presidente più votato di tutta la storia statunitense. Ha sfondato nella regione dei Grandi Laghi e si è preso parte del Midwest. “Ha riconosciuto che la maggior parte degli americani ha molta meno voglia di estremismo di quanto credono i conduttori tv e le celebrità dei social” (Mounk). Non ha perso il voto dei ceti colti e ha saputo volgere a suo favore quel desiderio di passato che era stato il sostrato della vittoria elettorale trumpiana di quattro anni fa (“Make America great again!”) e che oggi è stata volta proprio contro il presidente in carica (“Build back better!”).

Sì, Biden ha sconfitto il populismo rivolgendogli contro le sue stesse armi. “Il prossimo presidente degli Stati Uniti ha prevalso su Donald perché ha saputo leggere il momento geopolitico del cuore del paese” (Fabbri). Indicandogli la via del ritorno a quella normalità che ognuno sogna in questo tempo di pandemia – vedi lo scossone in su di Wall Street ieri, alle prime notizie sul vaccino Pfizer -. Interpretando il bisogno di un tempo senza mascherine e distanziamento che l’insorgere della seconda ondata ha risvegliato potentemente in tutto il pianeta. L’americano medio, stanco di questa stagione breve sul piano storico, ma interminabile sul piano psicologico, ha votato per il ritorno al buon tempo antico, abbandonando l’avventurismo cieco dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

Intendiamoci, populismo e trumpismo non sono morti. Forse non è nemmeno l’inizio della fine, ma solo la fine dell’inizio. Trump ha aumentato i suoi voti e c’è un’America nemmeno tanto profonda che rimane sensibile al richiamo identitario e al peggio che si è visto in questi anni. Si è anzi assistito a una polarizzazione delle posizioni che non promette nulla di buono. E resta il nodo di fondo, ovvero che, in tutto l’Occidente, “le classi sociali più sfavorite – economicamente e culturalmente – scivolano sempre più verso l’estrema destra” (Benvenuto), vivendo il fascino di un “focolarismo minacciato dalla società globalizzata, [che] non ha ragioni economiche profonde, bensì di tipo squisitamente culturale in senso lato (lo psicoanalista ha più da dire [in proposito] dell’economista)” (ancora Benvenuto).

Ma il nuovo coronavirus ha cambiato il mondo. I più avvertiti hanno sempre più chiaro che “siamo tutti sulla stessa barca”. I più superficiali hanno realizzato che essere nostalgici di un mondo razionale, competente e rassicurante è meglio che esserlo di un mondo di muri, parolaio e conflittuale. Di fronte alla pandemia chissenefrega di essere “great again”, ci accontentiamo di un “back better”!

La normalità è il nuovo “sogno americano” – e mondiale -. Che si incarna nelle parole del “victory speech” di Biden: “Ho promesso che unirò anziché dividere”; “il nostro governo sarà fatto di persone, si occuperà di persone”. E poi: “La Bibbia ci dice che c’è una stagione per ogni cosa: per costruire, seminare, raccogliere. Ora è tempo di guarire”.

“Cominceremo dall’epidemia”, ha continuato il presidente designato, “perché non è possibile costruire nuovi ricordi, partecipare a compleanni e matrimoni, a meno che non controlliamo il virus. […] Nelle ultime settimane della campagna pensavo a mio figlio Beau che non c’è più, alla speranza, agli americani che hanno perso i loro cari per colpa del virus. Io sono con voi e spero che la speranza vi dia sollievo. […] Adesso […] possiamo guardare al futuro. Con mano ferma e fiducia nell’America, […] per essere una nazione che sia quello che sa di poter essere: unita, forte, guarita”.

Ecco. Un discorso di speranza. Un augurio di guarigione. E’ quello che la maggioranza degli statunitensi voleva sentirsi dire. Una maggioranza composita, espressione degli strati sociali che da sempre appoggiamo i Dem, come pure di parte dei mondi che ultimamente si erano fatti tentare dal “rosso” dei Repubblicani: “nella Rust Belt il voto delle fasce popolari è andato convintamente al candidato democratico, e qui si trova una prima fondamentale differenza con il 2016 quando quegli elettori pur non avendo scelto Trump spesso non erano andati a votare” (Pennisi).

Anche molti elettori della piccola borghesia rurale, anche molti dei cittadini che abitano i ghetti urbani, non ne possono più. Dicono basta a un’estremizzazione che non ha portato loro nulla, se non più Covid, più razzismo e più confusione, a un’America “first” solo nei contagi e nel discredito in ogni parte del mondo.

Biden, ora, dovrà guarire il paese. Ricucirlo, ridargli un’anima. E’ stato questo il cuore del messaggio dell’ex vicepresidente. Se ci riuscirà non è dato saperlo. Quel che è certo è che per ora la carta del “build back better” ha funzionato. Per un’eterogenesi dei fini non insolita nella storia è stato il candidato delle élites – e parlando di passato, più che di futuro – a seppellire il sogno trumpiano della riconferma, sposando la straordinaria voglia di normalità di un paese nella tempesta.

Francesco De Palma

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